VIAGGIARE DA SOLI
Non è stato un viaggio facile (8.800 chilometri in 12 giorni, da Torino a Ballstad, nel nord della Norvegia) ma è andato esattamente come mi aspettavo andasse. Ovviamente è stato impegnativo soprattuto mentalmente, perchè quando viaggi in solitaria l’unica persona sulla quale puoi contare sei tu.
Devi calibrare le energie, essere cauto. Non dovevo attraversare in moto una zona di guerra, ma non potevo certo dimenticare che mi trovavo in luoghi relativamente “desertificati”. Ho percorso, tra Svezia e Norvegia, strade dove passava un’auto ogni tre o quattro ore e c’erano pochissimi distributori di benzina. Per questo era molto importante garantire l’autonomia della moto facendo il pieno anche con il serbatoio di poco sotto alla sua metà. Tra l’altro i distributori sono pochi e non sempre è segnalato a quale distanza si trovi il prossimo.
Ciò significa che se ti sei prefissato una tappa di 1200 km in un giorno, devi mettere in conto che perderai un paio d’ore solo per i rifornimenti.
LA CALMA DEI NON COINVOLTI
Poi devi mettere in conto che il sensore di una gomma può dirti che hai forato anche se non è vero, questo perchè andando verso il Polo Nord, si era solo un po’ afflosciata. Ma come fai a esserne sicuro?
Quando vai a dormire pensi tutta la notte al sensore, che segna 252 di pressione, lo sogni e speri davvero che al risveglio quel numero sia identico (dimostrando così che la gomma non è forata) e che non ti tocchi cercare un gommista o usare il kit di riparazione.
Al mattino quando ho acceso la moto e visto che la pressione era la stessa, mi sono rasserenato. Il fatto è che quando sei da solo questi contrattempi si amplificano. Se si è in due, l’amico “non coinvolto” (perchè ricordiamolo: la calma è la virtù dei non coinvolti…) ti rincuorerebbe e direbbe: “Ma dai, figurati se è bucata, è solo afflosciata!”. Se sei da solo la musica cambia.
LA CAMPANELLA PERDUTA
Poi si aggiunge la superstizione. Noi bikers abbiamo “the Gremiln Bell, una campanella portafortuna che appendiamo nella parte più bassa della moto e che, per tradizione, deve essere regalata da un altro motociclista. Nelle ore in cui mi chiedevo se avessi davvero forato nel nulla nordico nel quale mi trovavo, mettendo la moto sul cavalletto centrale mi sono accorto che la campanellina era stata strappata via. In quel momento la superstizione ha preso il sopravvento.
L’ALTRA EUROPA
Gli incontri con i Lions Club sono stati carinissimi. Ha prevalso un certo stupore, soprattutto quando abbiamo capito quanto fosse importante comprendere questa Europa dal nostro punto di vista. Ci sono molte menti giovani, fresche che costruiscono ponti e non muri, ottenendo risultati rilevanti. Forse un messaggio che storicamente ritengo importante sottolineare, al di là della politica, è che esiste un’Europa che può diventare davvero un polo di sensibilità e cultura sufficiente per rimettere la fraternità tra i popoli al centro del dibattito.
Viaggiando e osservando ho notato aspetti che non avevo mai considerato, per esempio la “rarefazione della popolazione”. Rispetto alle tematiche del vivere comune che noi abbiamo l’abitudine di commisurare all’ambito metropolitano, sono radicalmente diverse nelle selvagge foreste del nord Europa.
Già solo la costituzione del nucleo familiare come esigenza di sopravvivenza ha connotazioni a noi ignote. L’avvocato divorzista che in Italia è oberato di lavoro, nella Svezia dei boschi può morire di fame. Le ubbìe vengono superate perchè il principale obiettivo di una famiglia, a quelle latitudini, è sopravvivere a un clima molto freddo e a una notte prolungata. Per questo ciascun membro ricopre un ruolo definito e importante. La capacità di affermare la propria identità per superare le difficoltà della natura circostante, porta a un maggior rispetto di ogni ruolo familiare.
QUANDO NON C’È IL FINESTRINO
Non ero mai stato nel nord Europa in moto e vi posso assicurare che viaggiare su due ruote ha una valenza diversa. Osservi, senti gli odori, ti relazioni con la gente senza dover abbassare un finestrino. Significa infiniti rapporti che saranno sì fatti di poche parole: “Da dove arrivi”, “Dove vai”, “Cos’è quell’aggeggio che hai sulla moto”, “Come funziona”, ma ho sempre incontrato persone disposte a darti informazioni e, se necessario, una mano. Forse perchè non ti vedono come un questuante. Sei autonomo, un viaggiatore solitario, ispiri curiosità e per questo accettano volentieri il dialogo. Credo ci vedano come dei cavalieri che al posto del cavallo, sono in sella a una moto, che viene da lontano e non hanno idea delle ragioni che ci hanno portato fino lì.
L’OVVIO E LA CARTA DI CREDITO
Senza contare poi la necessità di dormire per due notti su due panchine diverse. Può succedere. Questo ha significato incontrare il disagio che anche lassù esiste eccome e quindi rendermi conto dell’ovvio. Le mattine successive mi sono alzato e strisciando la carta di credito mi sono concesso colazione e doccia calda. Al di là di tutta la retorica possibile, quando penso che ho salutato persone che quella doccia calda sono mesi che non se la fanno, ho capito di avere ancora più rispetto verso chi non ha la fortuna di avere sicurezze, affetti, stabilità.
Poco importa delle ragioni che li hanno portati a dormire su una panchina in una stazione, ma quando me ne sono andato, loro compagno per una notte, clochard anomalo, forse più marziano che altro, visto com’ero vestito, ho portato via con me un’esperienza che difficilmente dimenticherò.
MIO FIGLIO
Incontrare mio figlio (che fa l’istruttore di surf tra i fiordi) è stato commovente, non saprei definire diversamente quel momento. Ed è bello pensare come basti non andare in un’agenzia per prenotare volo, hotel e automobile, ma decidere di farcela da solo, con i propri mezzi. Poi arrivare e riuscire a tirar fuori tutta l’umanità possibile e infine riuscire a dirci, parafrasando il titolo di un libro, tutte le parole che non ti ho detto.
Mio figlio è stata la ragione vera e profonda di questo viaggio. Mi ha dato la forza di aprire il gas a manetta quando superavo un camion nella tempesta e non vedevo nulla oltre la visiera del casco.
Mi dicevo: “Devi arrivare, dai gas”. Ci sono stati momenti davvero difficili e quindi la voglia di superarli per arrivare da lui è stata determinante. Alla fine il viaggio è durato una dozzina di giorni, di cui due di sosta da mio figlio. Cinque giorni per raggiungerlo fino a Ballstad facendo 4400 km. Una bella media, ma ne è valsa assolutamente la pena.
IL MOMENTO PEGGIORE
Il momento più complicato è stato quanto la moto mi segnalava delle anomalie a causa della centralina di infotainment. Un baco solo di software e non di motore, che invece dimostrava grande affidabilità, però sufficiente a crearmi mi seri problemi. Ero a Lofoten a 23 km dall’arrivo, su un ponticello sul quale c’era spazio solo per un’auto, uno di quelli che collegano un fiordo con l’altro. Imperversava un vento che spostava me a la moto insieme, ero in salita e se mai si fosse fermata avrei dovuto mettere in atto una procedura piuttosto inusuale e complessa per farla ripartire. Avevo automobili davanti e dietro, non so cosa sarei riuscito a fare. Il mio imperativo era: “Non devo far spegnere la moto”. Mi è andata bene.
A TUTTO GAS
Per il resto il viaggio si è svolto senza grandi imprevisti, a parte un paio di tempeste nelle quali ho dovuto forzatamente proseguire perchè non avevo la possibilità di ripararmi o fermarmi da qualche parte. Ho dovuto andare avanti facendo 200 km con una visibilità scarsissima a 80/90 kmh tra i camion. Una sensazione non piacevole, perchè quando superi in quelle condizioni un mezzo così grande che alza un muro di acqua, hai la netta sensazione che non ti conviene rallentare, non sai chi hai alle spalle. Puoi solo accelerare. In quei momenti mi dicevo: “Non so se c’è qualcuno davanti a me, ma se c’è non soffrirò nell’impatto.” Non un gran pensiero, lo so, anche perchè magari qualche ora prima ero tranquillo all’autogrill che facevo colazione con un cornetto integrale e un cappuccino caldo. Però la vita, in fondo, è fatta di questo: improvvisamente puoi doverla mettere in gioco anche camminando per strada.
L’INGEGNERE DI VERONA
La cosa più inaspettata capitata di questo viaggio, rimarrà tra i ricordi più piacevoli è stato l’incontro con un altro motociclista a bordo del traghetto che dalla Danimarca portava in Svezia. Tra motociclisti si crea sempre grande solidarietà in viaggio. Lui è un ingegnere italiano, di Verona (gli italiani si sa sono ovunque, soprattutto dove pensi non ci siano), immediatamente simpatico. Non finiva più di ringraziarmi semplicemente perchè l’avevo aiutato a tirare le cinghie per legare la moto. Quando arriviamo su un traghetto dobbiamo legare le moto come i cavalli al saloon: tirare bene le briglie, altrimenti se il mare fa le bizze … le moto si ribaltano.
Ci raccontiamo amabilmente durante le tre ore e mezza di traversata, e l’ingegnere mi fa vedere un piccolo oggetto che mi ha letteralmente commosso: un adesivo raffigurante un uomo di un’altra epoca, su una Vespa. Mi spiega che quell’uomo è suo padre, un vespista che avrebbe voluto arrivare fino a Capo Nord, ma non ci era mai riuscito. Stava per coronare lui il sogno di suo padre e lungo il tragitto, ogni tanto, su qualche palo, attaccava uno di quegli adesivi. Segnava il cammino.
Gli ho chiesto di darmi uno di quegli adesivi da attaccare sulla mia moto. Adesso quando partirà per i miei prossimi giri, anche il papà dell’ingegnere veronese verrà con me. Ho un nuovo compagno di viaggio.